lunedì 26 marzo 2012

Hola La Poyana - Spazio P, Cagliari (21 marzo 2012)

Hola La PoyanaAvere l’influenza. Non riuscire a respirare.
Con le costole, tutte pari, che le potrei suonare a mo’ di glockenspiel.
Sto smagrendo. L’ho sempre desiderato, ma non così. Ma qui si parla di debilitazione.
E stress. Paura. Vuoto.
Ho la pancia che sembra un limone. Strizzata, bruciante.
Taccuino alla mano, scrivo pensando al kebab dell’ora dopo. Non sono disinteressato, non ho la testa per aria. Sto suonando il mio glockenspiel. Struscio il naso con l’ultimo dei fazzolettini. Incollato, secco e sporco. Mi piego in due per.
Suonare. Il rilievo liscio e piacevole dell’ondeggiare osseo coperto di pelle.
Dare una mano a Hola La Poyana.
Attraverso l’ampia vetrata dello Spazio P, lo vedo. Prova l’amplificazione della chitarra.
Un manipolo di curiosi chiacchiera di fronte all’entrata che ho arrancato a raggiungere.
Dentro pare ci sia un buon odore.
E le opere di Rosanna Rossi confermano quello che prima pensavo essere solo un accenno,
un assaggio.
Tante isole, informali, direzioni guidate.
Colori pieni e zigrinati in superficie.
Direzioni perfettamente a fuoco.
Molli te stesso ed entri attraverso lo specchio, in un mondo antimaterico. Il mondo di
unabimba di 75 anni.
Un invito di Francesco e Paolo.
Un cesto.
Nessun prezzo d’ngresso, dato il “periodo non rigoglioso“.
Un altro invito.
Un invito all’offerta, un’apertura cardiaca a chi ci ospita. A chi ci allieta.
E’ una comunione di beni, uno scambio. A cappello.
Ed evitiamo il ramino, per piacere. Evitiamo il ramino che con quello non ci fai neanche gli
spessori sotto le sedie sfalsate alla base.
Intanto Raffaele è già all’angolo, contornato da tutto ciò di cui ha bisogno: il samba per l’accordatura, lo slide quando serve, un pedale che si è rotto proprio oggi, un pezzo di legno su
cui battere il tempo, un microfono (il mezzo che più riesce a trasformarlo da Raffaele Badas
in Hola La Poyana) e il vino. Una tazza in terracotta, una bottiglia da stappare a bocca nuda,
l’aroma sino a qui, due metri lontano.
Tu ti dici Karate Lessons e, come ti aveva anticipato quella sera, Dr. Jekill & Mr. Hyde. E non è che ci si ferma al genere. E’ proprio un mondo a parte. La metrica, il contesto, la forma.
Cambia qualsiasi cosa.
Una trasformazione.
Quel Laney glielo compro io. Mette su un caldo gelido come fosse gelato cinese. Trattiene, liberando pian piano.
Ma lo spirito incorporato/scorporato, non vuole saperne di starsene rinchiuso nel suo vaso di
Pandora: “Don’t leave me alone“, “Targets” e “Vicious dog“, primo singolone (?) del
pubblicizzatissimo EP “Lazy music for dry skin“, e già mi innamoro di quel modo di pescare
le corde col plettro, la mietitura del raccolto, un percorso binario, sicuro.
Una tradizione.
Un ballo campestre.
Esce dal cerchio nelle pause. Sembra abbia trovato da qualche parte un bastardino randagio. Lo tiene con se, senza motivo, lo addomestica, nell’antipatia reciproca. E diventa suo, pur continuando con le scaramucce.
Un rappor to difficile con la chitarra.
Raffaele non è di certo un maniaco delle pulizie. Nella sua sacca c’è uno spettro che va dal pop
(americano, anche da classifica, conscio di meritarmi la gogna citando Incubus, Frusciante, Giant Sand; europeo, citazionista, spero di meritarmi una pacca sulle spalle citando
Nouvelle Vague o Fink) al blues, senza tangere la sfera rock.
Raffaele è una specie di saltafossi che prepara i biscotti con la sorella e Albert Hofmann, si siede masticando su una sedia a dondolo. “Un Huckleberry Finn dei giorni nostri” scrivo, mentre le gambe, nel loro incrocio, diventano due t rote morte, insensibili.
Sono abbagliato dal poter soffrire a tal punto, pur fregandomene completamente.
Non ho nulla, sono guarito.
Le melodie di “Demons in my eyes“, “Arguments“, “I must go“. Probabilmente questa è la dimensione che più si collega con la giovinezza. Il passato è un’espressione in accordi.
Stando lì, sembra chiarissimo.
Le imboddiate strumentali di “The first serious relationship” e “…” mi portano dritto dritto al concerto di Gionata Mirai dello scorso anno. Raccontini, spaccati di vicissitudini. Inizi a pensare alla vita che c’è negli interstizi t ra una mattonella e l’alt ra dello Spazio P.
Osservi le sue espressioni.
C’è chi cavalca il parquet.
Io tossisco sentendo il sangue.
Una manciata di canzoni nuove. Ci sono due bellissime illustrazioni. Una è sul libretto di “Music
for the jilted generation” dei Prodigy, l’alt ra sulla copertina di “10000hz legend” degli Air.
Ecco.
Ora, io non so perché mi vengono in mente, ma ci tengo a citarle.
Lode a qualcuno che si taglia le dita con un titolo tipo “You’re so amused“.
Simpatia per chi si lascia ispirare da un blues sull’amore per una lavat rice.
Rispetto per chi ti lascia andar via con un sorriso.
Complimenti per aver composto canzoni più ammalianti della cover “Ongoing horrible“.
E una volta spente le luci, fuori, la fame. Le costole.
Si ricomincia a dimagrire.

Scaletta:

“Don’t leave me alone“
“Targets“
“Vicious dog“
“Demons in my eyes”
“…“
“Arguments“
“The first serious relationship“
“You are a liar“
“I must go“
“You’re so amused“
“Washing machine blues“
“The best way to live“
“Ongoing horrible“
“Vicious dog“

© Foto di Paola Corrias

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