giovedì 6 dicembre 2012

ANCIENT SKY @Karemaski, Arezzo 01/12/2012


Foto di Valeria Pierini


Queste righe sul concerto dei newyorkesi Ancient Sky sono uscite con fatica, come se l’inchiostro incastrato negli spazi risultasse inadeguato a incanalare un suono che per densità e continuità ha più parentela con il silenzio. La loro performance, di un’intensità totalizzante, rischia di finire depotenziata dall’oggettività della cronaca ma, allo stesso tempo, esige di trovare traduzione nella forma analitica di queste parole; parole che hanno il compito, per quanto possibile, di trasferire alla memoria discorsiva il flusso ininterrotto dell’esperienza.
All’entusiasmo che precede la serata contribuisce forse anche l’attesa ormai quasi ostinata, nutrita nel mese trascorso dalla data perugina (esordio del tour italiano), improvvisamente e clamorosamente e annullata per circostanze indipendenti dai ragazzi di Brooklyn. 


Foto di Valeria Pierini
Dalle prime note fino all’epilogo, in un’ora e mezza avidamente ingoiata come un bicchiere d’assenzio, il nucleo rimane sempre il suono nella sua espressione più densa e impenetrabile, dentro la trama in divenire delle chitarre siderali e delle percussioni ossessive che le rincorrono.
La trance wave californiana ha travalicato qualche decennio e cambiato sponda, accorciando le distanze con i viaggi interstellari di Albione. Se le bordate chitarristiche echeggiano gli immensi Savage Republic e la ritmica ipnotica recupera le suggestioni dei 17 Pygmies, la purezza sonora dell’originaria matrice psichedelica inglese allontana lo spettro di ogni residuo wave. Quanto c’è di evocativo è tutto dovuto alla limpidezza e insieme alla corposità dell’esecuzione, che trova  inaspettata consonanza nell’impatto visivo quasi preraffaellita dei quattro: ciò a cui siamo chiamati ad assistere è la manifestazione e testimonianza della necessità di una nuova naturalezza nella complessità, di una spontaneità che non scade in spontaneismo ma si sorregge sull’impalcatura di una rara ricercatezza nei suoni.
Sporchi al punto giusto e senza alcuna velleità intellettualistica, non si risparmiano di fronte a un pubblico ipnotizzato in un’ammirazione radicale; le note sgorgano dal palco come un fenomeno atmosferico che inonda gli astanti e li attira senza dare tregua o consentire distrazioni.
Il finale che si dispiega in un lunghissimo cantato quasi gilmouriano, come un’invocazione scaturita da altre distanze, sembra voler trascinare il magma sonoro ben oltre le pareti della suburbana location aretina: non c’è conclusione, solo un propagarsi sempre più lontano e indistinto dell’ininterrotto diluvio di note.


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