lunedì 25 febbraio 2013

Echo & The Bunnymen - Grauzone Festival @ Melkweg, Amsterdam 01/02/2013




In pieni 80s un’auto si dirigeva regolarmente da Perugia verso un ameno borgo medievale circondato da ulivi e filari di vigne; la spedizione, guidata dall’esile bassista di un gruppo new wave, aveva scelto quale destinazione l’anonima bottega di un barbiere che, narrano le leggende dell’undergound umbro, era in grado di riprodurre la bizzarra e fascinosa acconciatura di Ian McCulloch. All’alba degli anni zero, una quindicenne china il capo blu elettrico su una chitarra classica, tentando di carpirne i segreti sotto la tutela del menzionato bassista, ignara di essere anch’ella destinata presto a soccombere quale ennesima vittima del sortilegio emanato dalla poetica post punk. Meno di un lustro dopo, farò anch’io esperienza del potere evocativo degli Echo & The Bunnymen, elargito tuttavia con parsimonia a un uditorio compiaciuto ma lasciato in desiderosa tensione.

Come è noto, la seconda volta è meglio della prima, soprattutto se consumata quale perfetto suggello del Grauzone Festival, lungo preliminare affollato delle difformi e varie derivazioni dell’estetica post punk. La ritrosia consapevole con cui McCulloch si offre concede una lezione memorabile della schiva sfrontatezza british, celato dagli occhiali scuri coperti dall’onnipresente chioma, insolente e insieme distante come un ventenne. E come opere inedite squaderna l’impareggiabile tetralogia inaugurata da Crocodiles: l’interpretazione si scrolla di dosso ogni polveroso residuo wave per imporsi scolpita come mirabile presagio e ideale archetipo degli stilemi del pop british a venire. 

La sfavillante chitarra di Will Sergeant incide nel diamante bordate solitarie, sovrapposta al deliquio in technicolor che sgorga dalle tastiere: dal palco deborda un bagliore denso e caleidoscopico, trainato dal timbro risonante di McCulloch. La voce, asciugata dalle asperità adolescenziali, si innalza solenne e drammatica su melodie lussureggianti come un’eco perpetua e ammaliante. I Bunnymen conservano distacco e lasciano trapelare il sarcasmo necessario affinché il melodramma non prevalga sull’evocazione e l’autentica urgenza espressiva non sia sostituita dall’esercizio di stile. Il fallimento della grande promessa, narcisisticamente alimentata da McCulloch di fronte allo specchio in solitudine, di regalare fama planetaria alla loro musica di oceani e montagne esce dalla condanna all’oblio per conferire l’aura definitiva di beautiful losers, autenticamente guadagnata con la disfatta.

La prostrante climax trascina indefinitamente il piacere sino all’incantamento completo, che dapprima fonde gli astanti nella notturna ascesi di "The Killing Moon", per poi aprirsi in un’alba trionfale sulla luminosità concentrica di "The Cutter". Musica per baciare, ammise Ian all’uscita di Ocean Rain: e affondando tra la nebbia cangiante esalata dal palco, di distacca da questo ennesimo, romantico, lunghissimo bacio.

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