martedì 12 novembre 2013

Low @ Teatro Puccini, Firenze 05/11/2013


Foto by Valeria Pierini
Sono in uno stato di euforico stordimento, indotto dalla conversazione pomeridiana con Alan Sparhawk e Mimi Parker: generalmente i musicisti, come mi confidò tempo fa uno di loro, sono egocentrici malati, insicuri e falsi; è scoperta inestimabile trovare il più evidente carisma d’artista congiunto con l’intelligenza esistenziale più limpida e con un’apertura umana quasi imbarazzante. Forse sono la consapevolezza dell’eccezionalità di questo incontro e l’esaltazione emotiva a condizionare il turbamento eccitato con cui arrivo ben prima del concerto. E non so se sono i miei nervi a pezzi o l’estasi della musica dei Low ma, dopo appena dieci minuti dall’inizio, la voce di Mimi Parker che sgorga in Holy Ghost apre anche in me uno squarcio di commozione: sono sopraffatta da un pianto incontrollato, e continuerò quasi ininterrottamente per i novanta minuti successivi.
Non ricordo nemmeno di avere un mondo intorno, mentre il suono satura la sala con vigorosa purezza: ogni vibrazione ha un’intensità autonoma, ben più potente dell’incisione sul disco; la naturalezza con cui i semplici accordi di chitarra si sciolgono sull’intreccio morbido del basso e sulle percussioni minimali è qualcosa di perfettamente compiuto, che esclude l’esigenza di aggiungere o scomporre. Mimi, immobile appena defilata dietro ai due uomini, innalza il livello del pathos con la sua sola vocalità cangiante e insieme semplicissima, capace di innescare deflagrazioni emozionali con il più lineare movimento d’aria. Venata di amarezza e rimpianto, la voce di Alan replica intaccando la purezza canora della moglie, come quando interviene con micro-distorsioni a disturbare l’apertura campestre del suo stile chitarristico; i suoi movimenti all’unisono con ciascuna nota sembrano scaturire dalle assi del palco, come se la musica trasmessa dai piedi lo attraversasse e lo scuotesse, quasi fatto della sua stessa sostanza. Immagino che sia un ottimo ballerino.

Foto by Valeria Pierini

Dopo aver attinto a piene mani dal dittico "C’mon" e "The Invisible Way", i cui episodi si allineano per straordinaria coerenza e affine attitudine, e dai predecessori, disorientano e avvincono con la cover di Stay. Mai avrei immaginato che un brano di Rhianna avrebbe potuto condurmi a un tale stato di prostrazione sentimentale, tale da costringermi a segnare sul mio taccuino, in una frenesia post-adolescenziale, i versi centrali (something in the way you move, makes me feel like I can’t live without you).

Foto by Valeria Pierini
Il bis d’ordinanza non basta al pubblico sopraffatto dalla performance e a luci già accese chiede ancora: dopo qualche minuto i Low appaiono sul palco visibilmente compiaciuti e appagati, chiudendo con "I hear…Goodnight", cesellata tra poche divertite battute tra i coniugi e il lungo applauso della folla, completamente soggiogata.
Ho visto decine, forse centinaia di concerti; sono abituata all’adrenalina che serpeggia nei live e all’empatia con cui i migliori musicisti sanno avvincere chi ascolta. Ma raramente ho percepito la sensazione di essere immersa in un momento umanamente singolare e di un’intensità esistenziale così tangibile.



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